Un Luglio alla Pensione Lidia

scritto da LuisLoiseaux
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Autore del testo LuisLoiseaux

Testo: Un Luglio alla Pensione Lidia
di LuisLoiseaux

Ascoltando i divertenti racconti di Paolo Cevoli, quando con la sua inconfondibile cadenza romagnola rievoca l’adolescenza e gli aneddoti della mitica “pensione Cinzia”, mi capita spesso di essere risucchiato all’indietro nel tempo.

Le sue parole fanno da grilletto e, senza chiedere permesso, riemergono le estati della mia gioventù, quelle comprese tra il 1965 e il 1971, quando la Romagna, più che una meta di vacanza, era diventata una seconda casa dell’anima.

Io vivo a Torino ma in quegli anni ero profondamente legato a quella terra.
Avevo quattordici anni quando, nell’estate del 1965, i miei genitori decisero di prendere in affitto un appartamento a Pinarella di Cervia per il mese di agosto.
Non era proprio a due passi dal mare, anzi, stava dalla parte opposta, verso la ferrovia, in una piccola frazione fatta di poche case e tanta campagna, dove il silenzio era rotto solo dai grilli e, a orari ben precisi, dai treni.

I proprietari erano persone squisite. Vivevano in una villetta che durante l’estate affittavano ai villeggianti, trasferendosi loro stessi in una sorta di rimessa riadattata con spirito pratico.
Il padrone si chiamava Walter ed era un agricoltore. Possedeva alcuni ettari di terreno che coltivava personalmente.
La terra, da quelle parti, è sabbiosa come una spiaggia mal riuscita ma sorprendentemente fertile. Da lì uscivano patate, asparagi, verdure di ogni genere e frutta in quantità, a dimostrazione che anche ciò che sembra povero, se trattato bene, sa dare molto.

Walter, la moglie e il figlio, un ragazzino di un paio d’anni più giovane di me, ci trattavano come ospiti veri, non come affittuari stagionali.
La sera, dopo cena, ci si ritrovava spesso insieme a chiacchierare o a giocare a carte.
Walter era una persona colta, con un carattere piuttosto riservato, qualità che lo rendeva un romagnolo anomalo, quasi sospetto. Parlava con calma, scegliendo le parole, e proprio per questo emanava un carisma naturale.
Amava i cavalli, ne possedeva uno e quando indossava il suo cappello da cowboy sembrava uscito da un western girato però tra i campi di patate.

Qualche anno dopo smise i panni dell’agricoltore e puntò tutto sul turismo, dimostrando uno spirito imprenditoriale notevole. I campi di patate si trasformarono in un centro sportivo, con maneggio e campi da tennis. Una metamorfosi che allora mi sembrò naturale, come se la Romagna avesse già deciso da tempo quale sarebbe stato il suo futuro.

I miei genitori si innamorarono dei luoghi e delle persone. Il mare, all’epoca, era semplicemente magnifico, la pineta una benedizione contro l’afa, il cibo una continua tentazione. Tutto contribuì a farci prenotare lo stesso appartamento anche per l’anno successivo.

Non avevamo ancora l’automobile, mio padre prese la patente dopo di me, quando compii diciotto anni, un dettaglio che ancora oggi mi fa sorridere. Perciò si andava a Pinarella in treno. Da Torino il viaggio era lungo e articolato, con cambio a Bologna, poi a Ravenna, e infine arrivo a Cervia.

Nel 1967 mio padre iniziò a interessarsi all’acquisto di un appartamento nella parte nuova di Pinarella, più vicina al mare, che stava crescendo rapidamente. Da quel momento Pinarella smise di essere una parentesi estiva e divenne una presenza costante.

Dal 1968, finite le scuole, decisi che volevo guadagnare qualcosa durante l’estate. Grazie alle conoscenze acquisite e all’aiuto di Walter, mi feci assumere come cameriere alla Pensione Lidia. Era una pensione a gestione familiare, una dozzina di camere, proprio nella via di fronte a casa di Walter. Non avevo alcuna esperienza ma fui aiutato con pazienza e indulgenza e, incredibilmente, riuscii a cavarmela.

Il mio lavoro consisteva nell’apparecchiare e servire pranzo e cena. Il signor Cesare, marito di Lidia, la titolare, lavorava a Ravenna come falegname ma ogni mattina riusciva comunque a servire le colazioni prima di partire e la sera, al rientro, servivamo insieme la cena. Nei fine settimana era sempre presente.
La cucina era il regno della signora Maria, madre di Lidia, anziana solo all’anagrafe e dotata di un’energia fuori scala.
La signora Maria era bassa e robusta, con mani forti, di quelle che non avevano bisogno di presentazioni. A prima vista poteva sembrare burbera ma bastava restarle vicino qualche giorno per capire che sotto quella scorza ruvida c’era una bontà autentica. Era sempre indaffarata, in perpetuo movimento tra fornelli e pentole, e non perdeva occasione per urlare qualcosa alle figlie, spesso accompagnando le ramanzine con colorite imprecazioni in romagnolo. La battuta, però, era sempre pronta e arrivava puntuale, anche mentre ti riempiva il piatto senza chiedere se bastasse. In cucina comandava lei, senza discussioni, e a nessuno veniva in mente di metterlo in dubbio.
Cucina sublime, lasagne leggendarie. Elda, la sorella di Lidia, si occupava delle camere con precisione quasi militare.

A fine giugno, terminata la scuola, partivo da Torino in treno e dormivo in pensione fino a fine luglio. Ad agosto, quando arrivavano i miei genitori, li raggiungevo nel nostro appartamento. In quel mese Cesare era in ferie e alla pensione il mio aiuto serviva solo nei momenti di massimo affollamento, fine settimana e Ferragosto.

Il mese di luglio, però, era il mio regno. Prima di partire da Torino spedivo sul treno la mia bicicletta, una Legnano da corsa di seconda mano, pagata ventimila lire e amata come un destriero. Finito il pranzo, sparecchiato e preparata la sala per la sera, salivo in sella e in poche pedalate ero già al mare.

Lì avevo iniziato a frequentare una piccola tribù di amici, villeggianti e locali. Legavo la bici alla ringhiera di un locale sulla spiaggia, che la sera diventava una sala da ballo, vicino all’allora Bagno Bianchi. Il vero punto di ritrovo, però, era la pineta, dove si parlava di tutto e di niente, si cantava accompagnati da una chitarra, con quella leggerezza che solo certe estati sanno regalare.

All’imbrunire rientravo per servire la cena. Poi, sistemata la sala con Cesare, ripartivo per la seconda vita della giornata. Questa volta niente bici, grazie alla signora Elda avevo a disposizione il suo motorino Ciao, mezzo di emancipazione assoluta. Con quello arrivavo spesso a Cesenatico, dove avevo conosciuto altri ragazzi e ragazze che frequentavo anche di giorno.

Le serate si allungavano, il rientro era spesso notturno e le ore di sonno ridotte all’essenziale. Nessuno però mi rimproverava. Anzi, venivo trattato come uno di famiglia. Più di una volta Cesare mi svegliò prima di partire per Ravenna portandomi la colazione a letto, gesto che ancora oggi considero una forma di lusso supremo.

Di quel periodo ricordo solo cose belle. In sala ero apprezzato, soprattutto dalle villeggianti, madri del Nord Italia con bambini al seguito, raggiunte dai mariti solo nel fine settimana, che mi riservavano attenzioni e sorrisi generosi.

E poi la cucina. Le mitiche lasagne della signora Maria, la coda di rospo alla griglia servita una volta alla settimana come fosse un evento solenne, le patate fritte che imparai a fare io stesso, sottili, croccanti, identiche a quelle delle buste, e la pasta fatta in casa con il ragù tipico emiliano. Ricordo ancora Maria che mi passava i piatti attraverso un finestrino mentre io facevo da tappo umano e lei completava le porzioni direttamente con le mani, senza bilance né misurini, solo esperienza.

A diciotto anni, presa la patente, arrivò la nostra prima auto, una Fiat 850 rossa. I viaggi verso Pinarella divennero più frequenti ma anche più epici. Fino a Piacenza niente autostrada (era ancora in costruzione) e quando finalmente imboccavamo l’Autostrada del Sole ci sembrava di essere arrivati, anche se mancavano ancora centinaia di chilometri.
La 850 era instancabile ma viaggiavamo carichi come un trasloco e le soste per raffreddare il motore erano obbligatorie, soprattutto in zona Reggio Emilia, dove al ritorno facevamo scorte di parmigiano e salumi.

L’arrivo a Pinarella restava ogni volta un piccolo miracolo. In bassa stagione il mare era limpido, la mucillagine sconosciuta, la spiaggia punteggiata di conchiglie. Si raccoglievano vongole, cannolicchi e noci di mare come se fossero lì ad aspettarci. Dopo le mareggiate comparivano perfino le seppie, regalo inatteso del mare.

Le estati alla pensione Lidia finirono quando fui bocciato in quarta superiore. Dopo un’ultima estate spensierata, nonostante tre materie a settembre, studiai gli ultimi quindici giorni, quanto bastava per confermare il verdetto. L’anno dopo mio padre decise che era tempo di lavori più seri e mi spedì a fare il tornitore nell’officina di un suo conoscente vicino casa.

A Pinarella continuammo comunque a tornare in agosto. Lì conobbi nuove compagnie, nuovi volti, nuove storie. E quelle persone, quei luoghi e quel tempo sospeso sono rimasti con me, intatti, come certi sapori che non se ne vanno più.

Un Luglio alla Pensione Lidia testo di LuisLoiseaux
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